30 ottobre 2025

La cucina delle meraviglie di Tim Burton: tra cibo gotico, follia e poesia del gusto

La cucina delle meraviglie di Tim Burton: tra cibo gotico, follia e poesia del gusto

cartellone The world of Tim Burton scattata sul cancello della Mole Antonelliana, Torino, foto di Gabriella Comini


Tim Burton è uno dei registi più iconici, visionari e riconoscibili della cinematografia contemporanea. Famoso per il suo stile unico e per la capacità di mescolare elementi dark, gotici e fantastici, l'irriverente, l'esuberante, con un irresistibile umorismo grottesco, Burton esplora costantemente i temi dell’emarginazione, dell’identità e della solitudine.

Tra i molti aspetti che definiscono la poetica e l’estetica dei suoi film, uno dei più sottili e affascinanti è la cucina: spesso presente in modo surreale, gioca un ruolo centrale non solo come elemento narrativo, ma anche come simbolo di relazioni umane, follia e trasformismo. 

Il cibo, nei suoi mondi, non si limita a soddisfare un bisogno fisiologico: diventa veicolo affettivo, simbolo di trasformazione, segno del consumismo e della disfunzione sociale.

Burton è un geniale creatore di universi bizzarri, in cui anche la cucina si trasforma in un territorio di invenzione e meraviglia. La sua “cucina delle meraviglie” non è fatta solo di ingredienti stravaganti, ma di atmosfere dove il cibo diventa proiezione della sua visione artistica e specchio della sua estetica inconfondibile.

Si dice che "siamo ciò che mangiamo": e allora, cosa dicono i piatti dei film di Tim Burton dei suoi personaggi?


La cucina come magia e metamorfosi

In Alice in Wonderland (2010), il mangiare e il bere sono strumenti di metamorfosi fisica e psicologica: Alice cambia dimensione e percezione, mentre Tim Burton gioca sulla contaminazione fra conoscenza di sé e esplorazione del mondo. Infatti il cibo non soltanto nutre ma è anche un mezzo che cambia e contamina la conoscenza di sé e del mondo.

Questa alterazione della realtà attraverso il cibo simboleggia il passaggio dalla fase infantile alla maturità e la ricerca dell’identità personale. Alice per scappare alle convenzioni del suo mondo si rifugia nel Sottomondo (un dedalo della propria mente tra sogni e incubi e realtà), con tutti i giochi di parole e nonsense tipici carrolliani in un’ambientazione tipica burtoniana e humour inglese.
La scena del tè del Cappellaio Matto è l’emblema di una convivialità caotica e delirante: una tavola che anziché confortare disorienta, dove il tè diventa rito di follia e ribellione.


rito del tè del Cappellaio Matto

Anche nel castello marmoreo della Regina Bianca ritroviamo un laboratorio culinario di magie, pozioni e ingredienti improbabili: un cucinare che mischia sapienza, ironia e trasformazione.

la cucina della Regina Bianca


In Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali (Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children, 2016), il cibo è ripetizione, rituale sospeso. Nel tempo immobile del loop, la stessa cena si ripete eternamente: tacchino, purée e cavoletti, mentre i mostri si nutrono degli occhi dei bambini. Il nutrimento diventa qui visione, potere e perdita: un cibo che alimenta e insieme annienta.

Le forze malvagie ambiscono alla vita eterna, dei mostri giganteschi e scheletrici, invisibili alla maggior parte delle persone, senza occhi, cercano i ragazzi dai poteri speciali per nutrirsi dei loro occhi con lo scopo di poter riacquistare un aspetto umano e mantenerlo. 

Tema ricorrente nel cinema quello degli occhi. Qui Burton unisce il tema della visione, del vedere e del non vedere (dove si nascondono i mostri), con il trauma del perdere gli occhi. Nella battaglia finale i ragazzi dai poteri speciali rendono finalmente visibili al mondo i mostri cattivi bersagliandoli con palle di neve, coriandoli e zucchero filato.

cena Miss Peregrine e la casa dei ragazzi speciali di Tim Burton


Il cibo come elemento grottesco e surreale

Ne La sposa cadavere (The corpse bride, 2005), Burton trasforma la cucina in un regno dell’assurdo. La tavola dei morti è più vivace, ironica e umana di quella dei vivi

Al colorato e caotico mondo dei morti si contrappone silenzio e imbarazzo. Tim Burton si è ispirato alla tradizione messicana e agli scheletri bianchi (chiamati calaveras) che alla fine diventano dei dolcetti deliziosi e colorati. 

Il cibo nel mondo dei morti è rappresentato in modo eccentrico e giocoso; le portate sono tanto spettacolari quanto inquietanti, e tutto ciò che riguarda il cibo sembra essere pervaso dalla stessa atmosfera di morte e rinascita che caratterizza il regno sotterraneo. 

Il cibo diventa un mezzo per unire il mondo dei vivi e dei morti, ma rappresenta anche la separazione tra i due mondi e allo stesso tempo diventa un simbolo di potere, di potenziale riscatto, di un amore che supera la morte stessa.

La scena in cui Emily prepara la torta è simbolica della sua ricerca di un amore che non ha mai avuto, un suo desiderio di connessione che risalta il contrasto tra i due mondi. La preparazione culinaria diventa quindi un atto simbolico di unione, un rito che rappresenta il passaggio tra i due mondi, l’uso del cibo come mezzo di comunicazione tra il mondo dei vivi e dei morti con l’intento di superare la separazione e allo stesso tempo accentua il tema della morte.

La torta nuziale di panna e tibie ne è l’emblema — un matrimonio di dolcezza e macabro, perfettamente burtoniano.

Il cibo come rappresentazione del consumo e dell’alienazione

In Charlie e la fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, 2005) la fabbrica di Willy Wonka è una sinfonia di tentazioni, e il cibo diventa allegoria del consumismo. 

La rappresentazione del cibo diventa una critica nei confronti di una società sempre più ingorda e superficiale, priva di valori solidi, misantropa e asociale sui vizi della nostra società che subisce cibo, gare, oggetti e tv. È anche un commento ironico sulla produzione di massa, sulla standardizzazione del cibo e sull’alienazione che ne consegue. I personaggi sono inghiottiti dal mondo del consumismo, come se il cibo fosse una trappola, un qualcosa di irresistibile che però non porta un reale piacere.

La fabbrica di Willy Wonka è un luogo magico dove ogni prodotto alimentare ha un effetto straordinario sui bambini che visitano il posto. Il cibo non è solo un bene consumabile, ma una porta verso mondi fantastici e, talvolta, pericolosi. Ogni ingrediente ha il potere di cambiare chi lo consuma, creando una riflessione sul consumismo e sulla ricerca del piacere.

La fabbrica è un luogo magico, in cui tutto, ogni tipo di alimento rappresenta una forma di alchimia, e il cibo assume una dimensione straordinaria e simbolica. La possibilità di creare cose speciali, straordinarie: partendo da ingredienti comuni mostra come la cucina diventi un simbolo di invenzione e creatività, ma anche di eccesso e desiderio senza freni. È una sorta di regno incantato dove il cibo non solo è abbondante ma sembra possedere una vita propria. È un microcosmo dove la magia è alla base di ogni ricetta, e ogni elemento ha il potere di cambiare la vita di chi lo consuma. 

Le leccornie, e il cioccolato, sono simbolo dei desideri, vizi e trasformazioni, ogni morso sembra portare i bambini verso un destino che riflette i loro caratteri. Il cibo diventa quindi una sorta di giudizio morale che evidenzia la natura egoista o viziata dei protagonisti. La fabbrica diventa un mondo parallelo dove la cucina diventa magica e surreale, una metafora della potenza della fantasia, della produzione in serie e del consumo irrazionale. Il cioccolato, normalmente associato al piacere e alla sensualità, qui assume una dimensione quasi alchemica, mescolando magia e consumismo.

Nel film ritroviamo il potere magico del cibo: dolci incredibili e fantasiosi come i croccantini piliferi che fanno crescere i capelli, o la gomma da masticare che contiene un pasto completo dalla zuppa alla torta di mirtilli. Willy Wonka con il suo aspetto eccentrico, crea punizioni folli per selezionare il suo vincitore del premio speciale.

In tutto questo mondo dolce a contrasto troviamo la solita zuppa di casa Bucket, un piatto poverissimo, che troviamo tutte le sere a casa di Charlie. La zuppa che la Mrs Bucket prepara è sempre la stessa, una zuppa di cavolo, che all’occorrenza si può “allungare”. Ma a dispetto della povertà il clima familiare è sereno, l’importante è condividere quello che si ha. La zuppa, la sua confortante familiarità, che restituisce la dimensione più autentica del nutrimento, la convivialità come forma d’amore, è quello che ritroviamo alla fine del film quando l’ascensore volante riporta Willy Wonka e Charlie dalla famiglia.

La cucina come rifugio e solitudine

In Big Fish (2003), la cucina è spazio del racconto familiare: un luogo dove il cibo diventa memoria e riconciliazione.

Il film esplora la relazione tra padre e figlio e la cucina assume un ruolo simbolico, un luogo di riflessione e riconciliazione. La scena in cui il protagonista racconta la storia di una "meravigliosa" preparazione di un piatto esotico diventa una riflessione sulle leggende familiari e su come il cibo sia legato ai ricordi di una vita passata, quasi come un simbolo di ciò che rimane impresso nella mente.

La preparazione dei piatti diventa la metafora delle storie che si raccontano e delle leggende familiari, dove il cibo non è solo nutrimento fisico ma anche simbolo di legami e racconti che si tramandano nel tempo. La cucina, anche se è una parte integrale della vita familiare, è anche uno spazio in cui la protagonista trova rifugio dalla frenesia del mondo esterno. Il cibo diventa un rifugio emotivo, e la cucina in un simbolo di cura.

In Batman (1989) la zuppa viene servita durante la cena tra Bruce Waine e Vicky Vale. Sono seduti a capotavola di un lunghissimo tavolo che li separa fisicamente ma anche significa un ostacolo di tipo sentimentale. Si sentono i cucchiai tintinnare nei piatti di porcellana bianchissima. Devono urlare per sentirsi, finché non si spostano in cucina, un ambiente più caldo, seduti vicini e complice qualche bicchiere di buon vino, ecco che la serata cambia completamente.

cena Batman


Ma la zuppa in Batman - il ritorno (Batman Returns, 1992) è anche qualcosa di confortante come la vichyssoise che Alfred serve a Bruce Waine nella bat-caverna. Bruce Wayne la prende distrattamente. Sta leggendo il giornale da un monitor e lo confronta con vecchie edizioni. Non ha posto dove appoggiare in piatto. Porta il cucchiaio alla bocca, e sputa immediatamente. Ammonisce Alfred dicendo “è fredda”. Impassibile Alfred risponde “è vichyssoise signore, va servita fredda”. Confortato dalla spiegazione Bruce Wayne mangia di gusto, senza staccarsi dal lavoro. La scena sottolinea il savoir faire e la cultura del maggiordomo rispetto a Batman. Ma questo ci rende più simpatico l'eroe, ce lo rende umano. Inoltre evidenzia il rapporto familiare con il maggiordomo.

I personaggi come Pinguino e Catwoman mangiano quello che ci si aspetta dagli animali di cui hanno il nome: pesci crudi per Pinguino, mentre Selina beve direttamente dalla bottiglia il latte, avidamente e sensualmente, lasciando cadere la bevanda sul mento e sul petto. Ma la scena che esprime al meglio la natura felina di Catwoman è quando, davanti agli occhi di Pinguino, gira intorno alla gabbia contenente un canarino, e se lo mangia. Alle minacce di Pinguino apre la bocca e lascia volar via l’uccellino. Il regista vuole porre l’accento sul mondo animale e eliminare l’umano. Non ci sarà nessun vincitore ma resta Batman avvolto dalla sua solitudine e malinconia.

Batman Returns la scena con Alfred e Bruce Wayne e la zuppa vichyssoise


In Nightmare Before Christmas (1993), nato dalla mente, o meglio zucca, di Tim Burton, tanto che si vedono anche nel titolo e regnano sovrane. Un film a cavallo tra Halloween e il Natale. Qui il protagonista Jack Skeletron è il re della città di Halloween ed è innamorato di Sally, la bambola di pezza, che per sfuggire al Dr. Finkelstein prepara una zuppa alla belladonna, invitante ma letale.

La zuppa di Sally è insieme gesto d’amore e ribellione: un cibo che cura e uccide, trasposizione della sua dolce vendetta.

Il film tocca delle tematiche importantissime come la solitudine, l’emarginazione interiore, la crisi di identità, il valore delle proprie origini, la diversità e l’accettarsi, il cambiamento, e lo fa nel modo più semplice e bello che esiste: con una favola gotica. 

Tra tutti i film di Tim Burton, forse questo è quello più autobiografico, affine ai mostri innocui di Beetlejuice e al triste eroe di Edward mani di forbice.

Il film ha anche un ricettario ufficiale ispirato dal film contenente varie ricette tra snack, contorni, antipasti, piatti principali, dessert e drink, “Nightmare Before Christmas Cookbook & Entertaining Guide” scritto da Kim Laidlaw, Caroline Hall e Jody Revenson.


Nightmare Before Christmas zuppa di belladonna


In Edward Mani di Forbice (Edward Scissorhands, 1990), la cucina è impossibilità e desiderio: Edward non può cucinare con le forbici, ma attraverso di esse crea bellezza. 

Il cibo non solo rappresenta il tentativo di Edward di inserirsi nel mondo borghese, ma anche la sua natura non convenzionale. Edward al posto delle mani ha delle forbici, il suo creatore non ha fatto in tempo a finirlo, e non può cucinare come tutti gli altri. L’incapacità di Edward di gestire le sue mani di forbice diventa la metafora di un’umanità che purtroppo gli è negata. La preparazione di un pasto, anche semplice, diventa un atto carico di emozioni, rappresenta il desiderio di Edward di integrarsi nella comunità, di farsi accettare. Quando ci prova non riesce a usare gli utensili da cucina in modo convenzionale: ha la capacità di trasformare il cibo in opere d'arte, ma anche in qualcosa di strano. La carne tritata e il panino, tagliato in modo strano, bizzarro, sono una metafora del suo essere incompleto e di come il mondo lo vede come outsider. Il cibo diventa così una forma di creazione distorta e disorientante, che riflette l’incapacità di adattarsi agli altri e la solitudine del protagonista. I momenti in cui Edward viene accettato dalla famiglia e dalla comunità ruotano intorno ai piatti di carne. Nella scena del barbecue Edward conquista il favore delle casalinghe, pettegole e invidiose (le desperate housewife) con le casette tutte uguali. Le mani affilate di Edward diventano degli spiedini, e questa caratteristica è un qualcosa da esibire. Ma proprio in questa scena c’è la sintesi di tutta l’ideologia di Tim Burton che mostra rituali comuni e comunitari, che dovrebbero trasmettere collettività e aggregazione, ma che invece si contrappongono alla costante difficoltà del protagonista di riuscire a essere accettato e che viene sempre visto e considerato come diverso.

Edward Mani di Forbice di Tim Burton barbecue


In questo film i dolci sono una componente essenziale che compaiono già nei titoli di testa. Non manca l’uso di metafore dolciarie: durante il primo incontro tra Peg ed Edward lei gli dice “Non avere paura, sono più innocua di una torta di ciliegie”. 

La macchina che ha dato la vita ad Edward è anche la macchina da mangiare e in particolari dei biscotti.

A simboleggiare la centralità del dolce il cuore stesso di Edward è fatto di biscotto, dolce e fragile che si può spezzare e sbriciolare in mille pezzi, la più delicata delle metafore burtoniane.

scena dal film Edward Mani di Forbice cuor di biscotto di Tim Burton


La cucina come follia e distacco dalla realtà

In Beetlejuice - spiritello porcello (1988), il cibo e la cucina sono usati per esplorare la follia e la disconnessione della realtà. 

La cucina della casa di Adam e Barbara Maitland è un luogo che riflette la loro difficoltà nell’affrontare la morte e l’idea di vita nell’aldilà.

La scena della cena con i Deetz, una delle più esilaranti che possiamo ricordare, si mescolano umorismo nero e l’assurdo, e si trasforma in un vero e proprio incubo grottesco. La cena, pur essendo un rito sociale tradizionale, viene ribaltata in un momento di disordine, mettendo in evidenza l’irrazionalità di certi rituali e l’assurdità della condizione umana e non segue alcuna logica. 

In una coreografia surreale, i Deetz e i loro ospiti sono seduti a tavola e vengono posseduti da due spiriti e, sulle note gypsy di “Banana Boat Song” di Harry Bellafonte, inscenano una divertente performance, un folle ballo da posseduti. Alla fine il cibo davanti a loro prende vita: il cocktail di gamberi si anima e inghiotte i volti dei commensali. La convivialità diventa possessione, la tavola palcoscenico del caos e disgregazione della realtà. 

Il cibo non è solo una necessità ma un simbolo del distacco dalla normalità e della disfunzione che caratterizza la vita dell’aldilà. La cucina rappresenta la confusione mentale e l’incapacità di rimanere aggrappati alla realtà, ma anche il desiderio di rimanere legati al passato e alla normalità. Diventa un simbolo di caos e disordine, dove il cibo non è più un piacere ma una fonte di frustrazione e straniamento.

Ma il cibo diventa anche un modo per comunicare. Beetlejuice propone a Lydia un rebus per farle pronunciare il suo nome (in quanto lui non può dirlo): fa apparire un gigantesco scarafaggio e un succo di frutta vicino alla ragazza che rendono molto chiaro la soluzione del rebus.

Beetlejuice usa il linguaggio del cibo persino per comunicare: grottesco e ironico, come tutto il suo universo.

cena Beetlejuice


Il cibo delle macchine

In Pee-Wee’s Big Adventure (1985), le colazioni sono orchestrate da marchingegni geniali: un’anticipazione dell’idea di macchina vivente che tornerà in Edward Mani di Forbice

Con un sistema geniale di leve e congegni, come nei cartoni animati, un ventilatore aziona una girandola, che accende una candela, che taglia un filo e lascia cadere l’incudine, che attiva le eliche, che fanno scorrere un uovo in un flessibile di plastica: tutto questo solo per preparare i pancake.

La meccanizzazione del cibo diventa metafora della fabbrica dei sogni – il cinema stesso, e l'uso di tecnologie.

Il cibo come critica sociale

In Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street, 2007), la cucina è un inferno domestico e il cibo assume una dimensione inquietante e tragica, un ruolo ancora più sinistro. È una metafora oscura della vendetta, dell’inganno e della perdita di umanità. In questo caso, il cibo diventa il mezzo attraverso cui i protagonisti si nutrono delle loro stesse azioni distruttive. Il cibo gioca un ruolo cruciale, ma in una chiave decisamente più oscura. 

La famosa scena della preparazione delle “torte di carne” è una delle più emblematiche della carriera di Tim Burton. La cucina di Mrs. Lovett diventa un luogo di morte e vendetta, un simbolo della discesa di Sweeney Todd nell’oscurità della sua vendetta. La carne tritata, un elemento che in altri film potrebbe essere legato alla famiglia e alla tradizione, qui è trasformato in un incubo, una critica alla società e ai suoi meccanismi di sfruttamento. Le torte di carne preparate da Mrs. Lovett, realizzate con carne tritata proveniente dai corpi delle vittime del barbiere, sono un simbolo della discesa nel macabro e della vendetta che consuma i protagonisti. 

Il cibo qui non è più un piacere ma un atto di distruzione, che evidenzia la perdita di umanità, l'abbrutimento dei personaggi, la corruzione morale e l'abbraccio della follia. Il cibo diventa una forma di manipolazione e sfruttamento, una rappresentazione grottesca della società che si nutre di sangue e sofferenza. 

Le torte non sono solo cibo: sono strumenti di morte e vendetta, che contribuiscono a sottolineare la desolazione emotiva e morale dei protagonisti, e allo stesso tempo sono un’illusione di normalità in un mondo altrimenti distorto.

Il nutrimento si rovescia in distruzione, simbolo di una società che divora sé stessa.

scena da Sweeney Todd di Tim Burton dove in primo piano Mrs Lovett cucina il ripieno delle torte e in secondo piano il barbiere


In Mars Attack! (1996), è uno dei film più eccentrici e complessi di Tim Burton: una satira che mescola elementi di fantascienza, umorismo nero e un’ampia dose di surrealismo. Il cibo è usato in modo simbolico per sottolineare il caos, l'assurdità e la critica sociale che attraversano tutta la narrazione, ma anche una critica verso il cibo simbolo americano, il junk food (cibo spazzatura dall’alto contenuto calorico ma dallo scarso valore nutrizionale).

Il cibo è uno strumento per esprimere la disumanizzazione, la violenza e la perversione delle dinamiche sociali. 

I Marziani, con il loro comportamento imprevedibile e distruttivo, invadono la Terra non solo con un attacco fisico, ma anche con un caos simbolico che include il trattamento del cibo e degli esseri umani.

La violenza degli invasori può essere vista come una distorsione del "consumare", un tema che tocca la critica della società consumistica, dove il cibo e le risorse sono sfruttati e sprecati. Il cibo e la cucina sono usati come metafore della società contemporanea, criticando il consumismo, l’ipocrisia e la fragilità delle convenzioni umane. 

In un mondo invaso da alieni distruttori e governato da umani che non sanno gestire né le proprie risorse né la propria umanità, il cibo diventa un veicolo di satira sociale, di disillusione e di caos. 

Gli unici personaggi risparmiati dalla satira feroce sono gli adolescenti cinici e dark come la figlia del presidente o goffi ed emarginati come Richi, il ragazzo del negozio di ciambelle, il Donut’s world, e che salverà il mondo con una semplice intuizione.

Tim Burton da bere

In questo viaggio gastronomico non possiamo dimenticare le bevande.

Anche le bevande nei film burtoniani diventano simboli di ironia e decadenza.

Lo champagne scorre in Batman e lo ritroviamo in Batman il ritorno a siglare la diabolica unione tra Pinguino e Catwoman.

Martini e whiskey fanno da sfondo alle decisioni importanti, o servono a caricature feroci e divertenti in Mars Attack!

Ne La sposa cadavere il brindisi dei morti è un inno alla vita più vero di quello dei vivi.

Conclusione: il cibo come specchio dell’anima

Tim Burton è un regista che cucina emozioni.

Nel suo cinema la cucina e il cibo sono elementi ricchi di simbolismi che si intrecciano con i temi del grottesco, dell’assurdo, e della distorsione della realtà. La cucina non è solo un luogo di nutrimento, ma un spazio dove le regole quotidiane vengono ribaltate, dove la realtà si fa bizzarra e dove il cibo può diventare sia un piacere che una minaccia. 

Tim Burton sa come usare l’immaginario legato al cibo per creare atmosfere che sono allo stesso tempo affascinanti e inquietanti, con un tocco di ironia che rende tutto più affascinante e disturbante al tempo stesso. Attraverso la cucina, il regista, esplora le emozioni e crea un mondo in cui il cibo si allontana dalla sua funzione alimentare e diventa un atto artistico, una porta verso un altro mondo o una metafora della mente umana.

Nel cinema di Tim Burton la cucina è un luogo della mente, dove le regole della realtà si dissolvono e nasce la meraviglia. Il cibo si fa racconto, trasfigurazione e arte.

Dalle zuppe gotiche alle torte di carne, dalle pozioni di Alice ai cioccolatini di Wonka, ogni piatto racconta il lato oscuro e poetico della natura umana, e crea mondi.

Non stupisce quindi che la sua visione abbia stimolato chef e food writer, sono stati scritti libri di ricette che si ispirano ai suoi film, e libri che analizzano la sua opera, anche attraverso la cucina. Proprio partendo dal cibo e dal vino, e sviluppandolo come un menu, è il libro di Francesca Rosso, “Zuppe, zucche e pan di zenzero, la cucina mostruosa di Tim Burton”, Leone Verde edizioni. 

Il risultato è una straordinaria contaminazione tra cinema, arte e gastronomia — la vera “cucina delle meraviglie” di Tim Burton.


30 settembre 2025

Il gelo al limone e "Il matrimonio del mio migliore amico"

Il gelo al limone e "Il matrimonio del mio migliore amico"


un budino di gelo al limone decorato con una fettina di scorza di limone candita servito su un piatto artigianale con i colori dell'acqua su un tavolo di granito verde grigio


Tra i dolci che raccontano la Sicilia attraverso freschezza e poesia, il gelo al limone occupa un posto speciale. Non è soltanto un dessert: è una storia tramandata da secoli, fatta di agrumi luminosi, leggende e quell’arte tipicamente isolana di trasformare la semplicità in raffinatezza. 

Il suo nome potrebbe trarre in inganno: gelo, infatti, si riferisce alla consistenza gelatinosa con la quale si presenta e non al fatto che viene servito freddo.

In un’epoca in cui il dolce tende spesso alla complessità e alla spettacolarità, questo dessert richiama alla memoria l’essenziale: raffinato, semplice, elegante e il profumo inebriante e inconfondibile del limone.


Origini tra Arabi e leggende d’amore

La storia del gelo affonda le radici nella dominazione araba della Sicilia (IX-XI secolo). Gli arabi introdussero l'uso degli agrumi e tecniche di arte pasticcera usando gli amidi, acqua di fiori, dando così le basi per molti dolci oggi famosi. 

Il concetto di "gelo" (dal latino gelu, "ghiaccio" o "congelamento") si riferisce, appunto, a una preparazione gelatinosa ottenuta tramite l'uso di amidi che conferiscono al liquido una consistenza morbida e liscia.

Accanto alla storia, vive una leggenda romantica: il dolce avrebbe preso forma come pegno d’amore per Eleonora D’Angiò, regina consorte del Regno di Sicilia nel Trecento, a cui un ufficiale,  innamorato segretamente, dedicò questa preparazione delicata e profumata.

Fra verità storica e mito popolare, il gelo conserva l’anima della Sicilia: un incontro di culture, passioni e creatività gastronomica.


Il gelo al limone come metafora d'identità

Pensando al gelo al limone, immediatamente mi è venuta in mente la nota scena di Julia Roberts che usa una metafora gastronomica nel film "Il matrimonio del mio migliore amico", una commedia romantica degli anni ’90 che vede la protagonista in un gioco sottile tra amicizia e amore. 

In questa scena, Julia Roberts, per spiegare le dinamiche dei sentimenti, usa una metafora culinaria: da una parte c’è la gelatina, dall’altra la crème brûlée. La gelatina è fresca, leggera, divertente; la crème brûlée sofisticata, perfetta. Sembrano opposti inconciliabili, eppure proprio in quella contrapposizione si annida il cuore del film: una metafora simbolica per spiegare le complicazioni del cuore.

La gelatina, il cui termine intendiamo vicino al "gelo" siciliano e in particolare al gelo al limone, non è una semplice gelatina, rischiamo di sottovalutarlo: il gelo siciliano è una signora gelatina, elegante senza essere pretenziosa, solare ma senza risultare stucchevole, è irresistibile e non stanca mai.

Riprendendo la teoria di Fabrizio Mangoni sulla fisionomica dei dolci, nel film Julia Roberts è la nostra gelatina, o meglio, il nostro gelo al limone, semplice, autentico, sincero e meno appariscente ma indimenticabile, mentre Cameron Diaz è la complessa, sofisticata, perfetta, artificiosa e inarrivabile crème brûlée. Questa metafora culinaria esprime tutta la complessità emotiva delle relazioni. Una rilfessione che si abbina bene con l'essenza del gelo al limone: un dolce semplice, dalle umili origini e popolari, che conquista con la sua naturalezza e freschezza.


Il Film: "Il matrimonio del mio migliore amico"

locandina "Il matrimonio del mio migliore amico"

Uscito nel 1997, Il matrimonio del mio migliore amico (My Best Friend’s Wedding), diretta da P. J. Hogan, è una delle romance comedy più amate degli anni ‘90. 

La trama è semplice ma spietata: Julianne (Julia Roberts) scopre all’improvviso che il suo migliore amico Michael (Dermot Mulroney), con cui ha sempre avuto un legame profondo ma platonico, sta per sposarsi con la giovane e perfetta Kimberly (Cameron Diaz). Presa dal panico e da un sentimento che non aveva mai voluto ammettere, Julianne decide che deve fermare quel matrimonio. In una serie di situazioni comiche, romantiche e sempre più disperate, Julianne tenta di sabotare le nozze... ma nulla va come previsto e, durante il percorso, scopre di dover mettere in discussione sentimenti, amicizia e crescita personale.

A contribuire al successo del film è anche il personaggio interpretato da Rupert Everett, l'amico gay di Julianne, George, e le canzoni del film co-protagoniste di situazioni divertenti.

La scena che tutti ricordano (oltre al karaoke disastroso di Cameron Diaz e il pranzo con “I Say a Little Prayer”) è quella in cui Julianne paragona sé stessa e Kimberly a due dessert molto diversi. Julianne spiega a Kim il motivo per cui Michael sceglierebbe la gelatina invece di una crème brûlée al ristorante: 

Julienne: Tu sei Michael, sei in un famoso ristorante francese e ordini crème brûlée come dessert: è bella a vedersi, è dolce, è insopportabilmente perfetta. All'improvviso Michael si rende conto che non "vuole" la crème brûlée... no, vuole un'altra cosa.

Kim: E che cosa vuole invece?

Julienne: Gelatina...

Kim: Gelatina?! Perché la gelatina?

Julienne: Perché è più di suo gusto la gelatina! La gelatina risponde di più ai sui gusti, capisco che in confronto alla crème brûlée è solo gelatina, ma probabilmente è quella che ci vuole per lui.

Kim: Posso diventare gelatina!

Julienne: No, la crème brûlée non sarà mai gelatina, tu non potrai mai essere gelatina!

Kim: Devo diventare gelatina!

Julienne: Tu non diventerai mai gelatina!


Questo dialogo è diventato leggendario perché racchiude il cuore del film: non sempre si può essere ciò che l’altro desidera.

Il matrimonio del mio migliore amico è una commedia romantica anomala: il finale non è quello che ci si aspetta. Non c’è la confessione d’amore ricambiata, non c’è il bacio finale sotto la pioggia. C’è invece un abbraccio, un’ammissione, una rinuncia. Una scelta dolorosa, ma necessaria.

Il film è apprezzato per il suo equilibrio tra umorismo ed emozione, dialoghi brillanti e personaggi ben costruiti. La sceneggiatura tocca temi universali come l'amore non corrisposto, la lealtà e la scoperta di sé. È un film dalle sfumature realistiche e ironiche, che raccontano i rapporti veri con profondità e spensieratezza. In un panorama di commedie romantiche che spesso seguono schemi rigidi, questo film osa dirci che non tutte le storie d’amore sono destinate a essere vissute, e che va bene così.

 La ricetta del gelo al limone


un budino di gelo al limone decorato con una fettina di scorza di limone candita servito su un piatto artigianale con i colori dell'acqua su un tavolo di granito verde grigio

La ricetta del gelo al limone è molto semplice, quasi un rituale. Viene tramandata di generazione in generazione. 

Ingredienti semplici e profumati: limone, succo e scorza, zucchero, amido e acqua, cotti a fuoco lento fino a ottenere una consistenza gelatinosa, vellutata e setosa. 

È un dolce dal gusto ricco che si scioglie in bocca: un dolce non dolce e la nota agrumata aspra e rinfrescante alla fine fa venire il desiderio di volerne ancora.

Non mancano, ovviamente, rielaborazioni del dolce al cucchiaio inserendo consistenze diverse, abbinamenti diversi e giocando sull'impiattamento.

Lasciando a te la scelta, io ti propongo la ricetta classica, sia in versione al piatto che in versione pret a porter nel vasetto, entrambe però monoporzione.

Fai solo attenzione che la versione al piatto è molto delicata da sformare dallo stampo, ma è il prezzo da pagare per la sua eleganza e bellezza quasi eterea.

Ingredienti

  • 1 l di acqua
  • 4 limoni grandi non trattati
  • 220 g di zucchero
  • 90 g di frumina o amido di mais o di riso
  • buccia di limone candita o pistacchi tritati per decorare, fiori di gelsomino o foglioline di menta, facoltativo
Procedimento

Metti in infusione la buccia di 2 limoni (solo la parte gialla) nell'acqua fredda per almeno 2 ore, meglio se li lasci tutta la notte, per concentrare gli aromi.

Versa in una casseruola l'acqua, dalla quale hai tolto le bucce di limone, il succo dei 4 limoni filtrato e l'amido setacciato, mescola bene poi aggiungi lo zucchero. 

Porta a ebollizione, a fuoco lento, mescolando continuamente con una frusta da pasticciere affinché non si formino grumi. Raggiungi l'ebollizione, e continua a mescolare fino a ottenere una crema liscia e gelatinosa. Togli la casseruola dal fuoco e lascia intiepidire prima di versare il gelo alimone negli stampi scelti.

Una volta freddo metti gli stampi in frigorifero per almeno 6 ore prima di servire.

Puoi decorare, prima di servire il gelo al limone, con dei pistacchi tritati grossolanamente, con un scorzetta di limone candita, un fiore di gelso, che ne esaltano il profumo e il colore, oppure anche nulla, nella sua elegante semplicità.

22 agosto 2025

I fiocchi di neve di Poppella: la dolce storia napoletana e la versione fatta in casa...

I fiocchi di neve di Poppella: la dolce storia napoletana e la versione fatta in casa...


 
primo piano di un fiocco di neve intero e una metà che mostra il cremoso ripieno di latte, in secondo piano altra metà della brioche e altri fiocchi di neve interi, su vassoio in ardesia su runner bianco grezzo con disegnai in argento degli abeti


Napoli ha sempre saputo stupire con la sua pasticceria: dalla sfogliatella al babà, ogni dolce racconta una storia fatta di tradizione, passione e un pizzico di segreto. Ma tra le creazioni più recenti che hanno conquistato il cuore (e il palato) di migliaia di persone, c’è un dolce tanto semplice quanto irresistibile: il fiocco di neve di Poppella.


Il fiocco di neve è una piccola brioche dalla consistenza soffice, farcita con una crema leggera e bianca a base di latte, panna e ricotta; ed è diventato celebre grazie alla Pasticceria Poppella nel Rione Sanità di Napoli, dove Ciro Scognamillo ha perfezionato la ricetta originale nata due generazioni prima di lui. Sembra che il ripieno sia arricchito da un ingrediente segreto che dona un tocco unico alla crema, racchiusa in una pasta di brioche delicata e areata.

La storia dei fiocchi di neve

Il fiocco di neve nasce nel cuore del Rione Sanità, uno dei quartieri più autentici e vibranti di Napoli, dove tradizione, cultura popolare e gastronomia si intrecciano quotidianamente. 

In questo angolo della città, la storica Pasticceria Poppella, fondata nel 1920, è diventata negli ultimi anni un punto di riferimento nazionale grazie a una piccola, sofficissima creazione: il fiocco di neve.

La pasticceria fondata da Raffaele Scognamillo, soprannominato “Papele”, e da sua moglie Giuseppina Evangelista, detta “Puppnella”, la pasticceria prende il nome proprio dall’unione dei due soprannomi: Poppella.

Negli anni, la famiglia Scognamillo ha portato avanti l’attività con dedizione e passione, attraversando tre generazioni. Ma è solo con l’arrivo di Ciro, terza generazione, e l’invenzione del fiocco di neve (perfezionando la ricetta familiare) nel 2015 che la pasticceria ha conosciuto una nuova epoca d’oro, facendo uscire il suo nome dai confini del Rione Sanità e portandolo tra le eccellenze dolciarie italiane. In poco tempo, il fiocco di neve ha conquistato Napoli, poi la Campania, infine tutta Italia, diventando un vero e proprio fenomeno virale, con file chilometriche davanti alla pasticceria e fan disposti a viaggiare per assaggiarlo.

Oggi i fiocchi di neve sono simbolo di identità partenopea contemporanea: moderni nella concezione, ma profondamente radicati nella cultura del territorio. Un perfetto esempio di come innovazione e tradizione possano incontrarsi, dando vita a qualcosa di unico.


La ricetta dei fiocchi di neve fatti in casa su ispirazione di Poppella

Questa non è la ricetta originale del pasticciere Poppella, ma un'interpretazione fedele nello spirito e nel gusto. Questo perché la ricetta dei fiocchi di neve è segreta e gelosamente custodita nella pasticceria di Poppella a Napoli.

In giro troverai tantissime versioni e procedimenti differenti, a grandi linee simili, ma ogni versione si differenzia in qualcosa.

Per ottenere una brioche morbida e ariosa come quella del fiocco di neve, è essenziale seguire alcuni accorgimenti. L’impasto va lavorato a lungo e lasciato lievitare lentamente, spesso con un doppio processo di lievitazione, che permette alla brioche di sviluppare la sua struttura soffice. La cottura attenta a una temperatura moderata assicura una consistenza leggera e ben alveolata, perfetta per accogliere una crema morbida senza perdere la sua forma.

Seguendo questi accorgimenti io ho fatto fare una lunga lievitazione in frigorifero per tutta la notte alle brioche già porzionate e formate in piccole sfere. Il giorno dopo le ho lasciate poi a temperatura ambiente per almeno un paio d'ore prima di infornarle.

Il fiocco di neve è semplicemente un panino di pasta brioche morbida e soffice, spolverato con zucchero a velo e farcito con una crema fredda a base di latte. Ma proprio in questa sua semplicità è la sua arma vincente. Ricorda una coccola, ha profumo di buono, la sua consistenza unica: un morso e ci si ritrova in un sogno leggero e vellutato. 

Ingredienti 


Pasta brioche

  • 500 g di farina tipo 0
  • 110 g di zucchero
  • 2 uova
  • 1 tuorlo
  • 15 g lievito birra fresco (o 5 g lievito birra secco)
  • 160 g latte
  • 90 g burro
  • semi baccello di vaniglia (o qualche goccia di estratto di vaniglia)
  • tuorlo e 20 g di latte per spennellare
Crema di ricotta
  • 220 g di ricotta vaccina
  • 220 g di panna liquida fresca
  • 40 g di zucchero a velo
  • 10 g miele
Crema di latte
  • 300 ml di latte intero
  • 40 g di frumina (o altro amido)
  • 90 g di zucchero
  • qualche goccia di estratto di vaniglia
Decorazione
  • zucchero a velo

Procedimento

Prepara l'impasto mettendo nella planetaria il latte le uova e il tuorlo leggermente sbattuto e il lievito sbriciolato e amalgama fino a sciogliere quest'ultimo.

Aggiungi lo zucchero e fallo sciogliere, poi unisci la farina e lascia impastare a media velocità per una decina di minuti.

Incorpora ora il burro a pezzetti morbido, poco alla volta, lasciandolo ben assorbire, infine metti il sale e la vaniglia.

Quando l'impasto è morbido ed elastico mettilo in una ciotola, coperto con pellicola alimentare, e fai lievitare per un'ora.

Ora taglia l'impasto in pezzi da 40 g l'uno e forma delle sfere. Sistema ogni sfera su una teglia rivestica con carta forno, copri con pellicola alimentare e lascia lievitare fino al raddoppio.

Spennella la superificie dei panini con latte e tuorlo sbattuti insieme e inforna a 170° C in modalità statica per 12 minuti.

Per la crema di latte scalda in un pentolino il latte, metti lo zucchero e l'amido, mescola per far sciogliere bene e non avere grumi, poi aggiungi la vaniglia (semi o estratto). Metti su fuoco basso e mescola fino a quando il composto non si sarà addensato.

Trasferisci la crema in una ciotola e copri per pellicola alimentare a contatto, e lascia raffreddare.

Con una frusta lavora la ricotta con miele e zucchero a velo fino ad ottenere una crema. Aggiungi la crema di latte raffreddata e amalgama bene. Infine unisci la panna semimontata.

Trasferisci la crema ottenuta in una sac à poche con bocchetta liscia.

ATTENZIONE: i fiocchi di neve vanno farciti caldi, appena sfornati, perché solo in queto modo l'impasto nterno cede facilmente lasciando spazio alla crema.

Sfornati i fiocchi di neve procedi subito a farcirli facendo un buchino nella parte inferiore della brioche e riempiendo con la crema.

Lascia raffreddare i fiocchi d neve per un'ora poi servili con una generosa spolverata di zucchero a velo.


fiocchi di neve visti dall'alto, due interi euno a metà che mostra il cremoso ripieno di latte, su vassoio di ardesia, su runner bianco a trama grezza con disegnati in argento degli abeti sul lato lungo


N.B. I fiocchi di neve si conservano per un 2-3 giorni in frigorifero chiusi in un contenitore ermetico, anche se perderanno un po' della loro caratteristica leggerezza e ariosità.

Le brioche vuote si possono anche congelare.

La crema di conserva per 2-3 giorni in frigorifero.


8 agosto 2025

Milk bread buns

Milk bread buns

su un tagliere di legno bianco, sfondo scuro, tre panini al latte messi uno sopra l'altro come una piccola torre
 

È tornato il tempo di riaccendere il forno 

Con i primi accenni di frescura nell’aria, torna anche quella voglia irrefrenabile di far lievitare qualcosa di buono. È il tempo di rimettere le mani in pasta, di riscaldare il forno e di riempire la casa con il profumo inconfondibile del pane appena sfornato.

Quanto mi era mancato questo profumo! È qualcosa che sa di casa, di calma, di domeniche lente. C’è qualcosa di profondamente confortante nel sentire l’aroma del pane che cuoce, una sensazione che non ha bisogno di troppi fronzoli per essere speciale. E il pane al latte che ho preparato in questi giorni è esattamente così: profumato, morbidissimo e incredibilmente buono — senza neanche aggiungere aromi particolari.

L’ispirazione: Kristina Cho e il “Mother of All Milk Breads”

Per questi panini al latte decisamente speciali mi sono lasciata ispirare dalla ricetta di Kristina Cho, food blogger e autrice del bellissimo libro Mooncakes and Milk Bread. Kristina definisce questo impasto come the mother of all milk breads, “la madre di tutti i pani al latte”, e non potrei essere più d’accordo.

Non è il classico pane al latte: è una via di mezzo tra un pan brioche e un challah, arricchito da burro e uova, oltre che dal latte. Ma il vero segreto della sua straordinaria sofficità è il Tangzhong.

Cos’è il Tangzhong?

Il Tangzhong è una tecnica molto usata nella panificazione asiatica. Consiste nel cuocere una piccola parte di farina con acqua (o latte), fino a ottenere una sorta di gel. Questo processo permette agli amidi di trattenere meglio l’umidità, rendendo il pane più soffice e duraturo.

Kristina Cho spiega benissimo come realizzare il Tangzhong: è davvero semplice e, una volta provato, sarà difficile tornare indietro. Anche il resto della ricetta è chiaro e accessibile, scritta in modo dettagliato per accompagnare anche chi ha meno esperienza. Unico avvertimento: il sito è in inglese, quindi bisogna avere un po’ di pazienza per tradurre e convertire le unità di misura.

Chi è Kristina Cho?

Per chi non la conoscesse, Kristina Cho è una food blogger americana molto apprezzata, di origine cinese. È la terza generazione di una famiglia originaria di Hong Kong, trasferitasi negli Stati Uniti (Ohio) negli anni ’60. Con il suo primo libro, Mooncakes and Milk Bread, ha dato voce a una tradizione spesso poco raccontata: il baking cinese.

Il libro è una raccolta bellissima di ricette per dolci e prodotti da forno salati della tradizione cinese, rivisitati con sensibilità moderna e grande rispetto per le radici familiari. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti ed è diventato rapidamente un punto di riferimento per chi vuole esplorare questo lato della cucina asiatica.

La ricetta dei miei milk bread buns

Io ho scelto di usare questo impasto per fare dei piccoli panini al latte, perfetti per le merende, da farcire o gustare da soli. La forma a panino mi aiuta anche a gestire meglio le porzioni e a conservarli con più facilità (li surgelo e li scaldo all’occorrenza: restano sempre come appena fatti!).

Naturalmente, nulla vieta di usare lo stesso impasto per creare una forma classica a cassetta — il famoso loaf inglese, che trovo davvero poetico nel nome e nella forma.

Questi panini sono un piccolo capolavoro: morbidi, leggeri, versatili. Si accompagnano alla perfezione sia con ingredienti dolci (marmellate, crema di nocciole, miele) che salati (formaggi, salumi, avocado… le possibilità sono infinite!).

Se vuoi provare anche tu questi panini morbidissimi, qui sotto trovi la mia versione tradotta e adattata della ricetta di Kristina Cho, con ingredienti facilmente reperibili e istruzioni passo passo.

Ingredienti

Per il Tangzhoang

100 g di latte

20 g di farina per pane

Per l'impasto

335 g di farina per pane

125 g di latte caldo (40-43° C)

1 tsp di lievito secco attivo (circa 5 g)

50 g di zucchero semolato

1 uovo grande

1/2 tsp di sale

55 g di burro non salato,morbido e a pezzi

1 tsp di olio per ungere la ciotola

Per lucidare i panini

1 uovo

1 tbs di panna (1 cucchiaio)

Procedimento

Comincia preparando il Tangzhong.

In una casseruola piccola, a fuoco basso, fai cuocere la farina con il latte, mescolando continuamente fino a quando sarà addensata. Ci vorranno circa 2-3 minuti, la consistenza dovrebbe assomigliare al purée di patate. Trasferisci il composto in una scodella e lascia raffreddare per 5-10 minuti.

Scalda il latte, portalo quasi all'ebollizione, poi lascialo intiepidire in una tazza fino alla temperatura di 40-43° C. 

Quando il latte raggiunge la temperatura mescolalo con il lievito e un cucchiaino di zucchero (preso dal totale), poi metti da parte finché il composto non diventa spumoso, ci vorranno circa 5-10 minuti.

Nella planetaria munita di gancio a uncino versa la farina, lo zucchero, il sale e l'uovo, e inzia a lavorare a bassa velocità. Aggiungi il Tangzhong e il latte, continua a impastare a bassa velocità finché non è tutto ben assorbito.

Unisci il burro morbido a pezzi, uno alla volta, aspetta che il primo pezzo venga amalgamato prima di aggiungerne altro. Quando tutto il burro è stato inserito, alza la velocità della planetaria a media, e continua a far lavorare finché l'impasto non sarà ben incordato.

Trasferisci ora l'impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato, inumidisci le mani (l'impasto è molto appiccicoso) e fai un giro di pieghe per formare una palla bella liscia. 

Metti la pasta a riposare in una ciotola (volendo leggermente oliata, e rigira l'impasto all'interno per ungerlo tutto).

Copri con pellicola alimentare e metti in un luogo caldo per far lievitare fino al raddoppio. Puoi anche metterlo in frigorifero per 8 ore o tutta la notte.

Se hai messo l'impasto in frigorifero riportalo a temperatura ambiente prima di procedere con la lavorazione.

Prendi l'impasto, mettilo sul piano di lavoro, fai un giro di pieghe, poi dividilo in pezzi tutti dello stesso peso (io di 55 g) per farne dei panini. Se preferisci fare il pan bauletto, o in cassetta, dividi l'impasto in tre parti, fai un giro di pieghe e poi sistema i tre pezzi, con la chiusura verso il basso, nello stampo per il pancassetta. Copri con pellicola alimentare e lascia lievitare.

Procedi a fare tre pieghe da tre e a pirlare (rigirare) ogni pezzo per formare un panino tondo e liscio.

Sistema ogni panino su una teglia rivestita con carta forno, distanziati gli uni dagli altri.

Copri la teglia con la pellicola alimentare e lascia lievitare. Non ti preoccupare se orai panini ti sembrano piccini, devono ancora lievitare e poi cresceranno anche in cottura.

Preriscalda il forno statico a 175° C.

Spennella la superficie dei panini con uovo e panna sbattuti.

Inforna e lascia cuocere per 30-33 minuti.

Poi trasferisci la teglia su una gratella per 10 minuti. Trascorsi i 10 minuti puoi spostare i panini sulla griglia di raffreddamento, o sformare il pan bauletto. 

milk bread busu un tagliere di legno bianco una fila di tre dorati panini al latte, più uno aperto a metà sul davanti

 

29 luglio 2025

California Bakery Pancakes

California Bakery Pancakes




pila di pancakes bakery California con zucchero a velo e mirtilli



Nel cuore della tradizione americana, uno dei piatti più iconici della colazione è senza dubbio il pancake. E se c’è un luogo che ha saputo interpretare e reinventare questa prelibatezza con maestria, quello è California Bakery. 

Questa celebre catena di pasticcerie e ristoranti, conosciuta per la sua cucina autentica e saporita, ha conquistato il palato di tutti con i suoi soffici e irresistibili pancakes, che sono diventati un vero e proprio simbolo della colazione in stile californiano.

Le Origini della California Bakery

La California Bakery nasce negli anni '90 a Milano, grazie a un'idea di un gruppo di appassionati di cucina che volevano portare alcuni piatti, in particolare dolci, della tradizione americana nel cuore dell'Italia. L’obiettivo era di offrire un'esperienza culinaria che sapesse unire la comfort food americana con l’attenzione per la qualità e la freschezza tipica della cucina italiana. Da qui, la Bakery diventa un punto di riferimento per chi desidera gustare piatti tipici americani, dai bagel ai cheesecake, fino ai classici pancakes, che da subito catturano l'attenzione.

Tradizione e innovazione si incontrano

I pancakes hanno radici antiche nella tradizione e cucina americana: un semplice impasto di uova, latte, farina, burro che nella California Bakery hanno saputo reinventarli dando freschezza e innovazione alla ricetta rendendola unica.

California Bakery pancakes sono noti per la loro consistenza soffice e leggera, morbida e vellutata, che sono alla base del loro successo. 

Ma cosa rende questi pancakes così speciali?

La scelta di ingredienti di qualità, la loro combinazione equilibrata, la giusta cottura (il pancake non deve essere né troppo umido né troppo asciutto, e quel pizzico di vaniglia che impreziosisce i pancakes di una delicatezza unica e un profumo avvolgente.

I pancakes della California Bakery

La ricetta classica prevede tre soffici pancakes serviti con zucchero a velo o sciroppo d'acero. Tuttavia i pancakes sono estremamente versatili e si possono gustare in modo alternativo con miele, frutta fresca, creme spalmabili, panna montata e cioccolato, se vuoi restare nel dolce. Ma è possibile gustarli anche in versione salata farciti con prosciutto e formaggio, con pancetta croccante, uova strapazzate, formaggio spalmabile.

Insomma i pancakes sono un equilibrio perfetto tra dolce e salato che li rende ideali in ogni momento della giornata, non solo per colazione, ma anche per un brunch domenicale o, perché no, una merenda pomeridiana.


pila di pancakes bakery California con zucchero a velo e mirtilli


La ricetta

Ingredienti per 6/8 persone
  • 230 g di farina di grano tenero tipo 0 per dolci
  • 25 g di zucchero
  • 1 tsp e 1/2 di bicarbonato
  • 1/4 tsp di sale marino integrale
  • 210 g di yogurt bianco intero
  • 50 g di burro fuso
  • 3 uova bio
  • 1/3 semi di bacca di vaniglia (o 1/4 tsp di estratto di vaniglia)
  • 25 ml di aceto di mele (o vino bianco)
  • 460 ml di panna fresca

Procedimento

Prepara la panna acida: metti la panna e l'aceto di mele in un bicchiere, mescola con un cucchiaio e lascia riposare per 15-20 minuti in modo che il composto si addensi.

In una ciotola mescola con cura tutti gli ingredienti secchi.

In un'altra ciotola più grande amalgama gli ingredienti umidi: prima yogurt, burro e uova, poi incorpora anche la panna acida mescolando delicatamente finché il tutto è omogeneo.

Aggiungi a pioggia gli ingredienti secchi, continuando a mescolare con un cucchiaio o con una frusta a mano.

Ungi con il burro una grande padella antiaderente e mettila su fiamma bassa.

Con un mestolo versa una piccola quantità di impasto nella padella. Ripeti l'operazione per latre tre volte, così da poter cuocere 4 pancakes contemporaneamente.

Il pancake deve cuocere circa 2-3 minuti, fallo dorare in modo uniforme da un lato, fino a quando non si formano delle piccole bolle in superficie,  allora sarà pronto per essere girato con cura e delicatezza. Termina la cottura, ci vorranno altri 2- 3 minuti. 

Da servire caldi accompagnato con quello che preferisci tra dolce e salato.



18 ottobre 2024

La mia Tarte Tropézienne

La mia Tarte Tropézienne


tarte tropézienne a forma di margherita farcita con crema diplomatica, su piatto di portata con mano di lato


La Tarte Tropézienne è un dolce francese simbolo dell’eleganza e della Costa Azzurra, di Saint Tropez in particolare, è anche associato a Brigitte Bardot, una delle dive più amate del cinema.

La sua storia è un connubio perfetto tra tradizione, innovazione e fascino. Un dolce che ha saputo conquistare il cuore di milioni di persone con la sua morbida brioche e la delicata crema, e continua a essere un'icona della pasticceria francese.

La storia della Tarte Tropézienne

Tutto ha inizio negli anni '50, quando Alexandre Micka, un pasticcere di origini polacche, decide di aprire una boulangerie-pâtisserie a Saint-Tropez. Crea una deliziosa brioche farcita con crema pasticcera, leggera e profumata: la ricetta è un’eredità familiare, gli è stata tramandata dalla nonna. Ben presto questo semplice ma particolare dolce diventa la specialità della sua pasticceria.

Nel 1955 il pasticciere Micka è il fornitore ufficiale dei pasti della troupe cinematografica del film “Et Dieu… créa la femme” di Roger Vadim. La golosa Tarte conquista tutti e in particolare Brigitte Bardot. L’attrice ne è talmente entusiasta che suggerisce a Micka di dare un nome a questo golosissimo dessert: “Tarte de Saint Tropez”, in seguito semplicemente “Tarte Tropézienne”.

Rapidamente la Tarte Tropézienne diventa un simbolo dell’eleganza e di Saint Tropez, la sua notorietà si diffonde in tutto il mondo e la ricetta originale viene custodita e tramandata. Per proteggere la sua creazione, Alexandre Micka decise di depositare il marchio "Tarte Tropézienne".

Caratteristiche della Tarte Tropézienne

La Tarte Tropézienne è una brioche morbida, burrosa e soffice che si scioglie in bocca, farcita con una crema pasticcera leggera e profumata, e per compleatre una spolverata di zucchero a velo. La sua crosta è dorata e croccante, mentre l'interno è morbido e cremoso. Il contrasto tra le due consistenze, unito al sapore delicato della crema, la rende un dolce irresistibile. La forma classica caratteristica è leggermente rotonda e schiacciata.

Questo capolavoro di dolcezza è un dolce protetto, infatti ha ottenuto la denominazione di origine protetta (IGP) a garanzia della sua autenticità e della sua qualità.

Ovviamente col tempo molti pasticcieri si sono cimentati nella produzione del dolce e a lasciare il segno con qualche personalizzazione nelle aromatizzazioni, crema o forma.

Vuoi provare a prepararla a casa?

tarte tropézienne a forma di margherita con mano di lato

La ricetta

La ricetta originale della Tarte Tropézienne è segreta e tale rimane, però si possono trovare varie versioni che si avvicinano all’originale e le rivisitazioni di molti pasticcieri. Ad esempio Cedric Grolet le dà una forma floreale e arricchisce la crema pasticciera con mascarpone e panna, altri usano la chiboust, ossia una crema pasticciera con meringa all’italiana. Qualcuno usa la diplomatica, la crema pasticciera con la panna e chi la mousseline, la pasticcera con burro. Ma non finisce qui: c’è chi bagna la base della brioche con l’acqua ai fiori d’arancio e chi profuma solo la crema, qualcuno cuoce subito la brioche e qualcuno invece la fa riposare almeno una notte.

Quale fare? Quale la migliore?

La migliore è sicuramente quella che incontra maggiormente il nostro gusto personale: una soffice pasta brioche ricoperta di granella di zucchero croccante che racchiude una delicatissima crema, questo è quello che hanno in comune tutte le Tropézienne!

Arriviamo così alla mia versione che ricorda, da lontano, una margherita e quindi le forma a fiore di Cedric Grolet (ovviamente molto più bella). La brioche, soffice e burrosa, l’ho profumata con zest di arancia e poi farcita con una crema diplomatica aromatizzata con vaniglia, limone e essenza di fiori d’arancio.

Sono stata molto parca in zucchero, e ho ottenuto così una Tropézienne davvero deliziosa, non mi resta che lasciarti la ricetta.

Ingredienti


Per l’impasto brioche
  • 250 g di farina di frumento tipo 0 (12,5% di proteine)
  • 200 g di burro a temperatura ambiente
  • 160 g di uova intere
  • 30 g di zuchero semolato fine
  • 3,5 g lievito birra disidratato
  • Buccia arancia grattugiata
  • Latte per spennellare la superficie
  • Granella di zucchero
Per la crema diplomatica
  • 220 g di latte intero
  • 40 g di tuorli
  • 40 g di zucchero semolato
  • 20 g di amido di frumento
  • 4 g agar agar (o gelatina bloom 200)
  • Buccia di limone
  • Bacca di vaniglia
  • 1 cucchiaino di essenza di fiori d’arancio
  • 200 g di panna fresca da montare

Procedimento

Per la pasta brioche

Nella ciotola della planetaria, munita di gancio a uncino, setaccia la farina, aggiungi il sale, lo zucchero e il lievito. Avvia la planetaria, lascia che le polveri si mescolino, poi aggiungi gradualmente le uova leggermente sbattute.

Appena le uova saranno state assorbite unisci, a media velocità, il burro a cubetti un po’ alla volta. Continua ad aggiungere il burro a mano a mano che il precedente è stato incorporato.

Per ultimo unisci all’impasto lo zest d’arancia.

Tieni la velocità della planetaria medio-alta e fai lavorare. Ogni tanto spegni la macchina, stacca l’impasto dalle pareti della ciotola, e fai ripartire. Ci vorranno circa 20/25 minuti. Fai attenzione alla temperatura dell’impasto che non salga sopra i 24° C, se così fosse fai raffreddare in frigorifero la ciotola per qualche minuto.

Quando l’impasto sarà ben incordato, si aggrappa al gancio e sbatte sulle pareti della ciotola, è pronto per essere coperto con pellicola alimentare e lasciato a temperatura ambiente “a puntare”, dovrà raddoppiare il volume.

Metti ora la ciotola in frigorifero e lasciala per tutta la notte (almeno 10 ore).

Il giorno dopo estrai l’impasto dal frigo e lascialo a temperatura ambiente per 30 minuti, poi rovescialo su un piano di lavoro e dividilo in parti uguali dello stesso peso. Con ogni parte forma quello che sarà poi il petalo del fiore: crea un ovale e allunga una delle estremità. Procedi con tutte le parti della brioche.

Ora sistema i “petali”su una teglia, rivestita con carta forno, con le parti strette che convergono verso il centro, uno vicino all’altro. Per far mantenere la forma puoi anche aiutarti con un anello d’acciaio traforato a forma di fiore.

Copri con pellicola alimentare e lascia lievitare fino al raddoppio.

Spennella la superficie con del latte e cospargi con granella di zucchero.

Cottura in forno preriscaldato statico a 165° C per 20/25 minuti. Poi sforna e lascia raffreddare. Se hai usato un anello per la forma toglilo, passando prima un coltello lungo i bordi.

Per la crema diplomatica

In una casseruola scalda, portandolo quasi a ebollizione, il latte con la buccia di limone, una bacca di limone e l’essenza di fiori d’arancio. Lascia in infusione.

Nel frattempo monta i tuorli con lo zucchero e poi aggiungi l’amido di frumento setacciato, sciogliendolo bene.

Filtra un po’ di latte sul composto di uova e mescola bene con la frusta. Quando hai amalgamato aggiungi il resto del latte filtrato.

Versa il composto nuovamente nella casseruola e cuoci mescolando continuamente fino a quando la crema non inizia ad addensarsi. Unisci l’agar agar, mescola bene e raggiungi gli 82° C.

Ora sposta la crema in un altro contenitore, copri con pellicola a contatto e conserva in frigo per almeno un’ora.

Monta la panna: deve risultare montata a neve ma non ben ferma. Trasferisci un terzo della panna nella crema pasticcera e incorporala lavorando il composto con una frusta allentando il composto. Poi aggiungi un altro terzo e, sempre con la frusta, amalgalo con movimenti che vanno dal basso verso l’alto. Infine ripeti con l’ultimo terzo di panna.

Trasferisci la crema diplomatica in una sac à poche munita di bocchetta liscia da 10 mm e trasferisci in frigorifero fino al momento di utilizzo.

Montaggio del dolce

Taglia la brioche con un coltello seghettato poco sopra la metà (la parte superiore non deve essere molto pesante).

Nella parte inferiore della brioche, iniziando dai bordi e andando verso il centro, dosa la crema creando delle “boulle” (palle).

Prima di appoggiare la calotta superiore sulla crema, riponi in frigorifero per 15 minuti.
Poi copri e spolvera con lo zucchero a velo.




27 giugno 2024

Tarte au Sucre di Cedric Grolet

Tarte au Sucre di Cedric Grolet


tarte au sucre di Cedric Grolet su vassoio di marmo scuro


La Tarte au Sucre è un dolce tipico della Francia del Nord e del Belgio: una pasta brioche burrosa e morbida con la superficie dorata, leggermente croccante e un po' appiccicosa, grazie allo zucchero sulla
superficie. Un dolce semplice da realizzare ma dal gusto irresistibilmente delizioso. 

A differenza di altri dolci francesi, questa tarte non gode della loro stessa notorietà. Probabilmente perché in realtà è una pasta brioche. 
La tarte au sucre è semplice ma molto elegante e golosa, letteralmente da leccarsi le dita. Proprio questa sua essenzialità la rende adatta a una vasta serie di abbinamenti, ed è perfetta per colazione, ottima a merenda, ma può anche essere servita come dessert.

La Tarte au Sucre rientra nel tema del mese di #frameofbreak scelto con le mie amiche Gioia e Gabriella: la Francia.

Gioia Barbieri nel suo articolo ci porta in viaggio tra le regioni francesi raccontandoci i loro dolci.

Gabriella Rizzo, sul suo sito, ci parla della sua ultima lettura, "Il mistero di Rue Des Saint-Péres" di Claude Izner, un giallo ambientato nella Parigi del XIX secolo dove Victor Legris, un libraio e investigatore dilettante, che si trova coinvolto in una serie di omicidi misteriosi durante L'Esposizione Universale. Accompagna la lettura con dei golosi eclair al cioccolato.

La tarte au sucre all'apparenza potrebbe essere scambiata per una focaccia, magari proprio la focaccia che nelle varie versioni, antiche e moderne, Cappuccetto Rosso porta alla nonna. Non posso parlare per altri, ma sinceramente il mio lupo si sarebbe mangiato sicuramente la focaccia dolce. Naturalmente il finale e la morale della favola sarebbe stata diversa, ma come canta Eugenio Finardi, nella sua bellissima "Favola", "i lupi non fan più paura a nessuno, ce ne son così pochi e vivono tanto lontano"...

Ecco forse preferisco decisamente le versioni moderne di Cappuccetto Rosso (come "Cappuccetto Distratto" di Cinzia Razzoli, illustrato da Isabella Ongaro), che rientrano nell'antifavola classica con Cappuccetto Distratto, che comunque indossa la sua mantellina rossa, è decisamente una ragazzina sveglia, ha una mamma che studia pasticceria, ed è contornata da altri personaggi fantasiosi. Un libro decisamente divertente e piacevole, che senza essere "cruento" insegna che il finale, come il nostro destino, lo determiniamo noi con le nostre scelte e le nostre azioni. In comune tutti i vari Cappuccetto Rossi hanno che portano le leccornie alla nonna e passano attraverso il bosco.

La Tarte au Sucre, purtroppo, non la vediamo protagonista di libri o film, possiamo forse, appunto, trovarla citata o fare qualche fugace apparizione, spesso come simbolo di comfort food, della casa, dei piaceri della vita e della cultura francese. Appartiene a quelle preparazioni tradizionali che hanno il potere di suscitare ed evocare emozioni e ricordi. 

Storia della tarte au sucre

La Tarte au Sucre ha una lunga e affascinante storia, affonda le sue radici, sembra, nel Medioevo

Le sue origini precise però restano misteriose, ma si pensa che il dolce sia nato nelle regioni del nord della Francia e del Belgio, dove la coltivazione delle barbabietole da zucchero era particolarmente diffusa.

Era un dolce semplice e preparato nelle case contadine con pochi ingredienti come farina, burro, uova e zucchero. In un'epoca in cui lo zucchero era un bene prezioso, la tarte au sucre rappresentava il dolce riservato alle occasioni speciali o alle festività. 

Nel corso dei secoli, la tarte au sucre ha guadagnato popolarità in tutto il nord Europa, diventando un simbolo della tradizione culinaria di queste regioni. La sua semplicità e bontà l'hanno resa un dolce amato da persone di tutte le età e ceti sociali.

L'arrivo dello zucchero di barbabietola nel XVIII secolo ha dato un'ulteriore spinta alla diffusione della tarte au sucre, rendendola ancora più accessibile e apprezzata. Nel XIX secolo Napoleone, a seguito del blocco continentale che creò penuria di zucchero di canna, incoraggiò la regione del Nord-Passo di Calais nella produzione di zucchero di barbabietola. La crescita di questa industria portò notevoli vantaggi economici e favorì la diffusione e la popolarità della torta in tutta l'area.

La tarte au sucre rappresenta un pezzo di storia antropo-culinaria, simboleggia l'identità e la cultura di un territorio.


Tarte au sucre di Cedric Grommet su vassoio di marmo con dettaglio fetta

La ricetta della Tarte au Sucre di Cédric Grolet

La tarte au sucre è una viennoiserie che si può trovare nelle boulangerie o nelle pasticcerie francesi e belga.

La ricetta tradizionale (tramandata nelle famiglie) diceva di mescolare tutti gli ingredienti in una ciotola, poi lasciar lievitare, dopodiché stendere in una teglia, ricoprire di zucchero e poi infornare fino a doratura. Col tempo la ricetta ha subito delle variazioni adattandosi ai cambiamenti sociali ed economici e adattandosi ai gusti e alle esigenze di epoche diverse. Possiamo così notare l'aggiunta di frutta secca, spezie o liquori, oppure delle modifiche di impasto. 

Diverse rivisitazioni della tarte au sucre sono state proposte anche da alcuni grandi chef.

Trai vari nomi troviamo anche Cedric Grolet, celebre e premiato pastry chef, che ha scelto la semplicità per la sua tarte au sucre, e proprio questa caratteristica rende il suo lievitato molto speciale e meravigliosamente buono. La sua tarte è senza aromi, in modo che possa essere abbinata a preparazioni sia dolci che salate, è burrosissima, morbida e soffice come una nuvola. Semplicemente meravigliosa.

Prima di procedere alcune piccole raccomandazioni:

  • procuriamoci dell'ottimo burro. Questa brioche non ha aromi il burro è il protagonista e deve avere profumo e aroma di latte, non deve essere forte e sapere di formaggio, meglio poi se salato;
  • Cedric Grolet usa una farina T45, che è più forte di una nostra farina 180W, ma è più debole di una Manitoba. Io ho scelto una farina di frumento tipo 0 con 12,5% di proteine;
  • la dose di lievito potrebbe sembrare eccessiva, ma dobbiamo considerare che è un impasto molto ricco di burro... a discrezione se ridurre la quantità di lievito aumentando i tempi di lievitazione;
  • per impastare meglio usare una planetaria o un'impastatrice. Si potrebbe lavorare anche a mano, ma vista la complessità dell'impasto l'inserimento del burro potrebbe risultare molto laborioso e la pasta potrebbe non arrivare alla corretta incordatura;
  • la tarte au sucre andrebbe mangiata a temperatura ambiente o leggermente tiepida
Non resta che metterci al lavoro per realizzare una buonissima tarte au sucre.

Ingredienti

Impasto

  • 250 g di farina di frumento tipo 0 (12,5% di proteine)
  • 115 g di uova a temperatura ambiente
  • 40 g di latte intero a temperatura ambiente
  • 30 g di zucchero semolato
  • 10 g di lievito fresco di birra
  • 6 g di sale
  • 125 g di burro 

Per completare

  • burro a cubetti (meglio se salato o leggermente salato)
  • zucchero semolato

Procedimento

Nella ciotola della planetaria, munita di gancio impastatore (quello a uncino), metti la farina setacciata, lo zucchero e versa il latte in cui avrai sciolto il lievito. 

Lavora fino a quando si forma un impasto grossolano.

Ora aggiungi le uova leggermente sbattute con il sale, appena saranno assorbite, unisci il burro un pezzettino alla volta. Lavora a bassa velocità (la 2), poi quando il burro è stato incorporato impasta per 10 minuti alla velocità 2/4.

Trasferisci l'impasto, che sarà molto morbido, in una ciotola imburrata, copri con pellicola alimentare e mettila in frigorifero per almeno 12 ore.

Trascorse le 12 ore, riprendi l'impasto e lascialo a temperatura ambiente per circa 2 ore, dopo mettilo su un tappetino di silicone (o carta forno) leggermente infarinato e forma una palla, capovolgila, appiattiscila e sgonfiala leggermente.

Porta i lembi della pasta verso il centro formando una palla e capovolgi di nuovo in modo che le pieghe siano sul fondo.

Con un matterello stendi la pasta allo spessore di 7-8 mm. Poi con un anello imburrato da 20 cm ricava la forma dalla pasta brioche.

Lascia la pasta all'interno dell'anello, copri con pellicola e fai lievitare per circa 60-90 minuti.

Accendi il forno statico a 170° C.

Con l'indice leggermente infarinato forma i buchi sulla superficie della pasta brioche, spolverizza con lo zucchero semolato, poi metti un pezzetto di burro all'interno di ogni buco e cospargi nuovamente con altro zucchero.

Inforna per 20-30 minuti.

Appena sfornato rimuovi l'anello e metti la tarte au sucre su una gratella per farla raffreddare.



Created By lacreativeroom