Le seadas

 

seadas

Le seadas o sebadas, al plurale, o seada, sebada, seatta, sevada, al singolare, paese che vai nome che trovi, e nei menù di solito si trova il nome al plurale… ma dietro tutti questi nomi si nasconde un dolce semplice della tradizione culinaria sarda. Nata salata nella tradizione agropastorale per i giorni di festa, era un piatto nutriente e saporito, come secondo o piatto unico, grandi quanto il piatto in cui venivano servite. Dalla tradizione c’è stata un’evoluzione fino ad arrivare a come le conosciamo oggi: un dolce, di dimensioni più contenute… o meglio un dolce non dolce. Gli elementi essenziali per le seadas sono la pasta e il ripieno. Per la pasta si usa la pasta violata, o violada, tipicamente sarda, fatta con semola di grano duro rimacinato e strutto (o olio extravergine d’oliva, per una versione più leggera). La semola ha una consistenza più grossolana rispetto alla farina di frumento dando così una consistenza differente, un colore più dorato e un gusto e un profumo particolare. Il ripieno è un pecorino sardo freschissimo e non salato, leggermente acidognolo, che deve filare dopo la cottura. Un dolce semplice ma abbastanza che richiede un po’ di manualità nella lavorazione e sicuramente impegnativo dal punto di vista nutrizionale… ma assolutamente da provare almeno una volta: è buonissimo. Le seadas vanno consumate rigorosamente calde appena fatte. Parola d’ordine per questo piatto è semplicità… mentre non si può dire altrettanto se si ripercorre la storia, antica. Anche le origini del suo nome sono piuttosto controverse.

Secondo alcune fonti, infatti, bisogna ricercare il significato etimologico al di là del mare, in Spagna, dal momento che la Sardegna è stata sotto suo dominio dagli ultimi decenni del Quattrocento fino al 1714: deriverebbe, quindi, dalla parola spagnola cebar, che in italiano possiamo tradurre come “cibare, alimentare”. Per altri invece il nome deriva dal altino sebum, per ricondurre all’abitudine sarda di usare il grasso animale nella preparazione, su seo in dialetto sardo.

Non resta che mettersi all’opera con le mani in pasta per realizzare questo dolce molto particolare.

Ingredienti

Per la pasta

  • 300 gr di farina di semola rimacinata
  • 30 gr di strutto (o olio evo)
  • 150 ml di acqua
  • una presa di sale

Per il ripieno

  • 300 gr di pecorino fresco
  • buccia di limone grattugiata (volendo anche arancia)

Per completare

  • Olio di semi per friggere
  • Miele di castagno o zucchero a velo

In una ciotola capiente, metto la semola e lo strutto a temperatura ambiente e il pizzico di sale. Poco alla vola aggiungo l’acqua, a filo, e lavoro l’impasto finché non sarà compatto.

Trasferisco l’impasto sul piano da lavoro e continuo ad impastarlo fino a ottenere un composto morbido, liscio e omogeneo. Copro con la pellicola e lascio riposare per una trentina di minuti (anche in frigorifero), mentre preparo il ripieno.

Grattugio il formaggio, lo metto in una pentola e lo faccio sciogliere a fiamma bassa, continuando a mescolare per non farlo attaccare. Quando pronto tolgo dal fuoco e aggiungo la buccia di limone grattugiata, stendo poi su carta forno e livello. Lascio riposare e raffreddare e poi procedo a tagliare il formaggio con un coppapasta circolare leggermente più piccolo della forma che useremo per la pasta. Volendo si possono già creare le forme circolari che serviranno per riempire la pasta.

Ora prendo la pasta e, su un piano di lavoro leggermente infarinato con la semola, la stendo con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia spessa circa 3 mm. Prendo ora un coppapasta della misura di 10 cm di diametro (io li ho fatti un po’ più piccoli) e taglio la sfoglia. Su ogni disco adagio una formina di formaggio, chiudo sovrapponendo un altro disco di sfoglia, premo bene i bordi, volendo si può premere con i rebbi di una forchetta, e poi tagliare la pasta in eccesso (se c’è) con una rotella. 

In una padella scaldo abbondante olio (frittura per immersione), e quando pronto friggo la seada: è importante cercare di non girarla mai, perciò verso l’olio con un cucchiaio sopra la parte che resta scoperta.

Quando inizierà a colorarsi e a fare delle bollicine, è il momento di toglierla dal fuoco: la faccio scolare sulla carta da cucina, cospargo di miele et voilà…  è pronta per essere mangiata bella calda.

A chi non piace il miele si può ripiegare sullo zucchero a velo. 

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