Un riconoscimento al modo di vivere che ha fatto scuola nel mondo
C’è un filo sottile che lega le cucine italiane — da Nord a Sud, da una casa all’altra — e oggi quel filo è diventato Patrimonio Immateriale dell’Umanità UNESCO.
Per la prima volta, non sono le ricette a essere celebrate.
Non i piatti iconici, non le preparazioni simbolo di una regione o di un’epoca.
A essere riconosciuto è un modo di vivere la cucina: fatto di comunità, memoria, gesti condivisi e quotidianità.
È la cucina di casa, quella che nasce nei ritmi lenti delle famiglie, nelle domeniche passate a tavola, nelle mani che tramandano un sapere antico senza bisogno di spiegazioni.
È la cucina che chiede solo: hai mangiato? vuoi qualcosa?
Ed è proprio nelle semplici parole “hai mangiato, vuoi qualcosa” è racchiusa la cucina degli affetti che è stata riconosciuta patrimonio UNESCO.
La cucina della memoria: il vero cuore della tradizione italiana
La notizia del riconoscimento UNESCO riporta alla mente immagini familiari:
le cucine delle nonne, piccole ed essenziali, ma piene di vita.
Cucine dove i profumi arrivavano prima delle voci, e i gesti si muovevano come in una danza imparata nel tempo.
La cucina italiana tradizionale non è solo nutrimento: è memoria, appartenenza, racconto collettivo.
Le cucine delle nonne: rituali che non si dimenticano
La nonna materna e il suo sugo della domenica:
un ragù cilentano ricco, preparato con salsa di pomodoro fatta in casa, spezzatino, salsiccia e rolatine.
Il pentolone sobbolliva dalla mattina presto, e il profumo si sentiva già dalle scale.
I fusilli tirati a mano con il ferro — uno di quei ferri oggi vive ancora, ereditato e custodito con cura nella mia cucina.
Il pranzo era un’orchestra: voci diverse, unite dallo stesso ritmo.
Della nonna paterna restano invece le sere prima della festa, dedicate alle olive ascolane.
Un lavoro lungo, che iniziava settimane prima con la salamoia preparata in casa.
Poi gli arrosti macinati, profumati di limone, parmigiano e noce moscata.
C’era sempre un assaggiatore ufficiale, incaricato di decretare se il ripieno fosse “giusto”.
La sera precedente il giorno di festa era un rito:
tutte le mani attorno al tavolo, la televisione accesa in sottofondo, le donne che lavoravano, gli uomini che chiacchieravano, e una bambina che osservava e ripuliva i noccioli delle olive che erano appena stati tolti.
Un rito lento. Ripetuto. Condiviso.
Anno dopo anno.
Il sapere che si tramanda: oltre le ricette
È questo sapere — più delle singole preparazioni — che oggi l’UNESCO riconosce come patrimonio.
Un sapere che non si trasmette con le parole, ma con l’osservazione:
guardando mani più esperte, ripetendo, sbagliando, correggendo.
Come scrive Simonetta Agnello Hornby, la cucina dei ricordi è quella in cui gli ingredienti si annotano, ma i passaggi si imparano vivendo.
La prima cucina che impariamo è sempre quella di casa.
Non è una cucina da chef, ma da artigiani dell’ordinario:
donne e uomini che conoscevano la stagionalità, evitavano sprechi, riconoscevano la qualità a colpo d’occhio.
Mia nonna, al mercato, non toccava mai nulla.
Le bastava guardare.
E nulla andava sprecato: tutto si trasformava.
Il sapere che si tramanda.
È questo sapere, più che le singole ricette, che oggi l’UNESCO riconosce come patrimonio.Un sapere che non si trasmette con le parole, ma con i gesti, osservando mani più esperte, ripetendo, sbagliando, correggendo.
Come scrive Simonetta Agnello Hornby, “la cucina dei ricordi” è quella dove gli ingredienti si appuntano, ma i passaggi si imparano vivendo.
La prima cucina che impariamo è quella di casa. Non è una cucina da professionisti, ma da artigiani dell’ordinario: donne e uomini che conoscevano la stagionalità, che sapevano comprare senza sprechi, che riconoscevano la qualità a colpo d’occhio.
Mia nonna, al mercato, non toccava mai nulla. Le bastava guardare per sapere cosa fosse buono. Nulla andava sprecato, tutto veniva trasformato.
Lentezza, attesa e tempo: valori riconosciuti dall’UNESCO
Nel riconoscimento della cucina italiana come patrimonio UNESCO risuona anche un messaggio profondamente attuale: rallentare.
La cucina autentica non segue tempi di produzione.
I ritmi li dettano la natura, gli impasti, le fermentazioni, le attese.
Non c’erano schermi né ordini online.
Al massimo una telefonata:
“Oh, ma qui che ci avevi messo?”
E poi di nuovo ai fornelli.
“La cucina ha i suoi tempi”, diceva mia nonna.
E mentre si aspetta, la casa si riempie di profumi che salgono piano, avvolgono, trasformano.
È un tempo sospeso.
È meditazione.
È memoria che si rinnova.
Perché le cose buone richiedono tempo.
E il tempo dell’attesa non è mai tempo perso.
